Sara Bareilles ha sfruttato la sua esperienza personale nel mondo della musica per sviluppare, insieme a Jessie Nelson, la serie Little Voice, progetto prodotto per Apple TV+ che prende il titolo da una sua canzone rimasta a lungo in un cassetto perché non considerata meritevole di essere inserita nella tracklist di un album o un singolo dai responsabili delle etichette discografiche con cui ha collaborato.
Lo show diventa un vero piacere, da vedere e ascoltare, per chi ama la musica e le storie di giovani che affrontano problemi e ostacoli “comuni” senza una eccessiva drammatizzazione degli eventi.
La protagonista è Bess Alice King (Brittany O’Grady) che vive a New York e cerca di farsi strada nel mondo della musica, mantenendosi con piccoli lavoretti temporanei, oltre a prendersi cura del fratello grande appassionato di teatro Louie (Kevin Valdez) e del padre Percy (Chuck Cooper), un artista dall’incredibile talento che è diventato un alcolista. La ventenne divide un appartamento con la sua amica Prisha (Shalini Nathina), alle prese a sua volta con dei problemi personali, e si avvicina a Ethan (Sean Teale), un aspirante regista con cui potrebbe nascere un sentimento romantico, mentre il suo chitarrista Samuel (Colton Ryan) fa i conti con un amore non corrisposto.
Bess si confronta con la realtà delle case discografiche, con i propri problemi in famiglia, con delusioni e amori complicati, faticando per mantenere la propria determinazione e la speranza di veder riconoscere il proprio talento.
La prima stagione di Little Voice trova il giusto equilibrio tra i tanti, forse troppi, elementi narrativi inseriti nella trama dopo i primi episodi che servono come un’introduzione della vita, davvero complicata, della protagonista. Dopo aver tratteggiato ogni tassello della vita di Bess, la narrazione inizia realmente a coinvolgere ed emozionare, sostenuta dall’ottima performance di Brittany O’Grady, dal punto di vista recitativo e vocale.
La serie non esita a mostrare il lato più negativo dell’industria musicale affrontando anche il problema delle molestie sessuali mentre cerca, senza però riuscirci del tutto, a delineare un ritratto della società contemporanea ancora alle prese con l’intolleranza, sfruttando l’omosessualità di Prisha che non può essere apertamente se stessa a causa di una famiglia molto conservatrice, e in cui è difficile integrarsi se si hanno dei problemi come Louie, il fratello autistico di Bess che si avvicina all’età adulta e al desiderio di essere indipendente dovendo scontrarsi con incomprensioni e pregiudizi. Se la storia di Prisha scivola presto nel facile espediente della rappresentazione tramite stereotipi, il rapporto tra Louie e Bess viene invece sviluppato con attenzione e sensibilità, senza mai nascondere le difficoltà della ragazza e al tempo stesso celebrando la voglia di vivere del giovane, il suo talento e la sua passione per i musical.
Tra gli aspetti meno convincenti delle puntate c’è l’uso limitato, e insoddisfacente, di due talenti del calibro di June Squibb e Luke Kirby, purtroppo relegati a parti secondarie che non valorizza le loro capacità, e una costruzione fin troppo prevedibile del triangolo sentimentale.
Dopo un paio di puntate la storia della protagonista riesce realmente a coinvolgere con i suoi tanti alti e bassi, trascinando verso un season finale che si spera sia solo un punto di partenza per una seconda stagione.
Non si può però parlare di Little Voice senza esprimere il proprio apprezzamento nei confronti della colonna sonora firmata da Sara Bareilles che, dopo il musical Waitress, firma un altro progetto che parla dell’animo umano con raro talento e bravura, con brani in grado di rispecchiare le emozioni dei protagonisti e risultare universali nel loro modo di raccontare la vita tramite ballate, pezzi pop e arrangiamenti maggiormente ricercati, seguendo i momenti più difficili di Bess e quelli più felici, le speranze e gli amori, in maniera impeccabile.
Little Voice immortala con sincerità i tentativi di una ventenne di trovare la propria identità, come individuo e artista, e al tempo stesso celebra la città di New York mostrandone i teatri, le aree verdi, gli spazi per la creatività e l’apertura verso una diversità stimolante dal punto di vista culturale.
Lo show prodotto dalla Bad Robot di J.J. Abrams non brilla forse per originalità, ma riesce a conquistare con la sua semplicità e luminosità, facendo evolvere bene i protagonisti grazie al lavoro degli sceneggiatori e del team impegnato alla regia, mettendo in secondo piano i tanti cliché e punti deboli nelle puntate finale.