João Paulo Miranda porta sul grande schermo con il suo Memory House le tensioni razziali esistenti in Brasile con un racconto evocativo e che merita una visione sul grande schermo per apprezzarne gli aspetti visivi suggestivi e la fotografia che enfatizza la bellezza degli spazi e dei paesaggi.
Il protagonista è Cristovam (Antônio Pitanga), un uomo di colore di origini indigene che, dopo essersi trasferito, lavora nel sud del Brasile come dipendente di una fabbrica. Dopo trenta anni la crisi economica gli fa però perdere la sua fonte di guadagno ed è quindi costretto a rifugiarsi in una casa in cui alcuni oggetti gli ricordano il proprio passato e le origini da cui si è, in un certo senso allontanato, rendendosi conto che nulla è cambiato nel tempo pur essendo trascorsi secoli. Cristovam deve infatti fare i conti con odio, razzismo e intolleranza da parte della sua comunità.
La poca esperienza di João Paulo Miranda Maria, di cui Memory House è il primo film di finzione, ha in parte ostacolato la buona riuscita del progetto. Gli elementi legati alla cultura e alla società brasiliana non sono sviluppati in modo cristallino e narrativamente coinvolgente, lasciando sille spalle di Pitanga il compito di sostenere un progetto significativo che nei suoi passaggi migliori sa costruire un ritratto drammatico e intenso di un uomo sempre ai margini, della vita e della sua comunità.
La splendida fotografia firmata da Benjamín Echazarreta contribuisce a infondere a Memory House un fascino che aiuta a colmare i passaggi a vuoto della sceneggiatura e i momenti meno comprensibili per chi non conosce il folklore e la storia brasiliana, essendoci un elemento legato al colonialismo che ha annientato molti aspetti della cultura delle comunità indigene.
Gli aspetti che danno spazio alle radici strappate e all’isolamento del protagonista rimangono poco sviluppati e il percorso che conduce all’atto finale non è dei più agevoli, considerando inoltre la presenza di personaggi secondari delineati a grandi linee e poco presenti.
La visione sul piccolo schermo, resa obbligata dalla versione digitale dell’edizione 2020 del Toronto Film Festival, non ha forse permesso la visione migliore di un’opera che fa di suggestioni e di rappresentazioni di luoghi e spazi le colonne portanti di un dramma umano ricco di potenziale rimasto in parte inespresso nel suo passaggio dalla sceneggiatura al grande schermo.